La nozione di “Greater Israel” deriva da interpretazioni teologiche estese dei confini biblici, non da trattati moderni.
L’endorsement di Netanyahu nel 2025 ha riacceso il dibattito, suscitando condanne arabe per intenti coloniali.
Storicamente fondatori come Herzl e Ben-Gurion hanno privilegiato flessibilità diplomatica e confini negoziabili rispetto a rivendicazioni massimaliste.
Movimenti post-1967 e piattaforme di destra hanno incorporato rivendicazioni territoriali tra il Mar Mediterraneo e il Giordano.
Strategia massimalista senza status giuridico chiaro rischia un regime di apartheid o di scomparsa della maggioranza ebraica.
L’applicazione pratica in Cisgiordania, Gaza e Golan mostra un’espansione de facto mediante insediamenti, annessioni e controllo militare.
L’argomento teologico come carta catastale è un errore di categoria che ignora la giustizia profetica e il diritto internazionale.
La sopravvivenza dello Stato ebraico richiede confini difendibili, istituzioni funzionali e relazioni pacifiche con i vicini.
Il progetto di un “New Middle East” sotto la logica massimalista è un riciclo di slogan di potere, non di prosperità.
Eticamente, la sovranità ebraica è vincolata alla legge e alla restrizione, non alla dominazione perpetua.
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