I musicisti della classe media faticano a guadagnare a causa dei bassi compensi da streaming e dei contratti discografici svantaggiosi.
I contratti 360 con le etichette impongono che queste trattengano una fetta consistente dei ricavi finché non recuperano gli investimenti, lasciando gli artisti a secco.
Il passaggio dai supporti fisici allo streaming ha drasticamente ridotto le entrate, con Spotify e simili che pagano pochi centesimi per riproduzione.
I costi di tour, trasporti, alloggi e visti rendono i concerti spesso non remunerativi, nonostante siano stati storicamente l’ancora di salvezza degli artisti.
Il settore culturale e l’economia locale soffrono quando i musicisti non possono vivere del proprio lavoro: chiudono locali, perdono posti di lavoro e si indebolisce il tessuto culturale.
Le sovvenzioni pubbliche e private aiutano ma non sono sufficienti, e i tagli ai finanziamenti rischiano di aggravare la crisi.
Artisti e realtà indipendenti propongono soluzioni come reddito di base universale, maggiori contributi degli streaming, sgravi per il live e iniziative dirette come #MyMerch per trattenere i ricavi del merchandise.
Un’attivismo collettivo di artisti influenti potrebbe spingere piattaforme e major a rivedere i modelli di compenso, ripristinando valore alla musica e sostenendo la classe media artistica.
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